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C’era una volta Suning

C’era una volta Suning o meglio c’è ancora. Il problema è che le ultime insistenti voci ci inducono a pensare a un futuro diverso del cielo nerazzurro. E la premessa diventa quindi fondamentale: questo calcio ha smesso i panni del gioco per farsi business, con i suoi milioni e interessi, condizionati a loro volta dalla politica. Il mondo Inter è da sempre sinonimo di cambiamenti, ribaltoni, scossoni. Niente di nuovo, semmai la preoccupazione nasce dalle scelte di un gruppo imprenditoriale da tutti considerato solido e affidabile che è costretto a compiere scelte importanti.

Quale futuro per questi colori? Quali nuove aspettative per milioni di tifosi che aspettano con trepidazione il meritato momento del trionfo sportivo? La sensazione è che l’Inter, come tante altre big del panorama internazionale, non siano più una questione di cuore, una passione per citare Branca, uno che qualcosa ha vinto con questi colori, piuttosto un giocattolo da sfruttare e poi rivendere. Sono finiti i tempi di Angelo e Massimo Moratti, tifosi veri, pronti a soffrire e a gioire nei momenti più delicati, quelli in cui, in base alle vicende di campo, si tagliavano teste e si metteva mano al portafoglio.

C’era una volta l’Inter dei Moratti e dei grandi campioni. Lì sì che decideva il campo, mente ora “il campo” è quello fuori, quello delle scrivanie, degli accordi, dei conti e delle due diligence. E allora eccoci pronti per un nuovo grande cambiamento. Fuori Suning e dentro un nuovo partner, forse BC Partners, destinato a prendere le redini di questo cavallo pazzo. I giochi della finanza e del potere stanno prevalendo sul confronto tra gli undici in campo, preparando il terreno per nuovi terremoti.

Nulla accade per caso e se pensiamo che questo polverone si stia alzando proprio a poche ore da Inter – Juventus, spartiacque per la stagione interista, tutto riacquista senso. L’Inter non ci delude mai. Cosa aspettarsi dal futuro? La pandemia ha inflitto una severa punizione a tutto il movimento non solo in termini di introiti. Quello che ci auguriamo è la realizzazione di un calcio sostenibile, più competitivo (e quindi spettacolare) e accessibile a tutti. Come un insieme di grandi aziende che operano per il bene della società e dei propri tifosi. 

Non ci resta che guardare avanti, proiettarci a un modo di vivere lo sport sempre più diverso dai suoi valori fondanti. Il rischio è che il risultato del campo si trasformi in un eco destinato ad affievolirsi.
Nel frattempo, buon Inter – Juve a tutti. 

Riccardo Amato

Inter, è un fallimento Real

Che sia colpa della società, di Conte o dei giocatori, una cosa è certa: qualcosa non va in casa Inter. Lo dicono i numeri, quelli non mentono mai, lo dicono soprattutto le prestazioni e i risultati. E se ad un inizio altalenante in campionato ci sono tuttora i modi e i mezzi per recuperare, la campagna di Champions sembra ormai ai titoli di coda.

Stiamo parlando di un fallimento preannunciato. Potremmo partire addirittura dal famigerato patto di Villa Bellini, quello del confronto tra il presidente Zhang, che ha voluto fortemente il tecnico ex Juventus e una dirigenza, rappresentata dal duo Marotta – Ausilio, che qualche dubbio forse aveva già iniziato a nutrirlo. Il tempo degli alibi è finito. Conte è riuscito a peggiorare un’Inter che aveva finito in crescendo la stagione scorsa sfiorando addirittura il successo in Europa League.

La breve pausa estiva è stata probabilmente sottovalutata, con un Eriksen in casa a prendere polvere ed alcuni equivoci tattici che hanno visto nella figura di Vidal il salvatore della patria, mai davvero incisivo e decisivo da quando ha varcato i cancelli di Appiano. Nessun salto di qualità evidente, nessun cambio di marcia come effetto di un mercato mirato.

Persino la strategia mediatica del Conte 2.0 non ha funzionato. Forse perchè trovare dei difetti a questo gruppo sarebbe stato irrispettoso. La rosa nerazzurra è competitiva fin da subito per lo scudetto e quantomeno per raggiungere gli ottavi di Champions League. I finti sorrisi hanno vinto sulle cose non dette, su quei sospiri che ci fanno credere che questa storia d’amore stia per giungere al termine. La storia dell’Inter impone dei comportamenti diversi dentro e fuori dal campo.

È paradossale, ma la stagione dell’Inter potrebbe essere già stata compromessa a meno di tre mesi dal suo inizio. Le deludenti prestazioni nel derby, nei match interni contro Parma e Torino e la lezione subita ieri sera rendono il quadro già drammatico. L’unica medicina possibile sarebbe un filotto di vittorie in campionato da qui a Natale, prospettiva difficile da immaginare se analizziamo questa crisi più in profondità.

L’Inter rinuncia al giocatore sulla carta più tecnico e con più esperienza del suo centrocampo, si affida a vecchi schemi e raramente prova qualcosa di veramente nuovo e innovativo. Il 3-5-2 che stiamo osservando non è certo quello di un’Atalanta che sprizza gioco e bel calcio, nonostante non sia al top della forma. Il tempo e le scelte hanno dato ragione a un tecnico che è già passato dalle parti di Appiano. La dipendenza da Lukaku è diventata patologica e i continui infortuni di alcune pedine di certo non aiutano.

Considerata la bocciatura di Pinamonti, l’Inter non ha un vero vice Lukaku, come dimostrato dall’adattamento di Perisic (altro enigma a tinte nerazzurre). Hakimi e Vidal stanno togliendo qualcosa più che aggiungerlo, Gagliardini è diventato improvvisamente indispensabile e Barella, a poco più di vent’anni, non può portare sulle spalle il peso delle ambizioni stagionali. 

Da dove ripartire? Probabilmente da un nuovo piano tattico, da scelte che facciano rima con forma e funzionalità dei giocatori. Non è vietato far riposare Vidal, si può e si deve contare di nuovo sul talento di Sensi, è fondamentale comprendere che in questo campionato così particolare l’Inter ha grosse possibilità di arrivare per prima al traguardo finale.

Serve ricordarsi che questa maglia non è per tutti e che, il giorno dopo la scomparsa di Maradona, il calcio è fatto anche di patti e di impegno, di sacrifici e di voglia di stupire. L’amore per la maglia non è contrattabile, il desiderio di superare l’avversario dovrebbe essere insito nell’animo di chi partecipa al gioco per mestiere. 
Niente accade per caso e per l’Inter si profila una nuova grande occasione: ribaltare il pronostico e dimostrare a se stessa che è di nuovo grande.

Riccardo Amato

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Vai Inter, la storia ti aspetta

“Rispetto sì, paura mai”. L’esordio di Antonio Conte in conferenza stampa non lascia spazio a dubbi. L’Inter questa sera si giocherà tutte le carte in suo possesso per conquistare una finale europea che manca da dieci anni. E se i ricordi scivolano dolci per i nostalgici tifosi nerazzurri, il presente incombe. Inter – Shakhtar non mette in palio soltanto la finale di Colonia ma molto di più.

Dopo un burrascoso finale di stagione, Antonio Conte e la squadra sembrano aver ritrovato serenità e compattezza, con l’Europa League arrivata a proteggere come una bolla tutto il mondo nerazzurro. Il lavoro del tecnico leccese e del suo staff è stato senza dubbio di livello: la squadra nerazzurra ha ridotto prima il gap con la Juventus in campionato ed è pronta a scrivere una pagina importante della sua storia recente. Tutto in un anno di lavoro, dopo aver superato non poche difficoltà (come gli infortuni di Sanchez e Sensi).

Superare gli ucraini significa gettare basi importanti e solide per la prossima stagione, quella della definitiva consacrazione, da concludere possibilmente con un trionfo quantomeno nel campionato italiano. Il percorso europeo del gruppo guidato da Romelu Lukaku era stato già di tutto rispetto in Champions League: pochi se lo ricordano ma l’Inter ha giocato alla pari con Borussia Dortmund e Barcellona, per poi crollare nei momenti topici dei match. Un segnale premonitore: ora l’Inter è l’unica italiana rimasta a giocarsela in Europa e vuole arrivare fino in fondo.

Ma quella era un’altra storia. A dieci anni dal Triplete, l’Inter ha la possibilità di raggiungere una finale europea e rimettere il naso nelle questioni calcistiche dei più grandi club d’Europa. L’eliminazione del Manchester United per mano del Siviglia dimostra come niente sia facile o scontato, ma i nerazzurri arrivano carichi e preparati all’appuntamento più importante.

Un risultato favorevole potrebbe rinsaldare la posizione del tecnico leccese, finito sotto i riflettori della critica non solo per le dichiarazioni post Bergamo ma per alcuni errori inevitabili all’inizio di un progetto pensato su base triennale dalla proprietà Suning. Ed ecco come l’Europa League apra le porte al futuro prossimo: se gli introiti non saranno da Champions League, il blasone, il prestigio e la storia sono da rispolverare.

L’Inter ha bisogno di un trofeo per definire più che soddisfacente una stagione sicuramente particolare.

Vai Inter, la storia ti aspetta. Il meglio deve ancora venire.

Riccardo Amato 

Pep Guardiola e un crollo annunciato

Si sarà guardato allo specchio più volte Pep Guardiola nelle ultime ore. Lui che fa dello stile e del messaggio da portare in campo dei mantra imprescindibili, colui che vede nella perfezione che tocca l’ossessione l’unica via per il successo. Si sentirà deluso e solo. I suoi ragazzi l’hanno tradito o semplicemente stiamo registrando la fine di un’era? Sempre in Inghilterra, il suo acerrimo nemico José Mourinho ha “deposto le armi” e ha ammesso come il calcio stia cambiando. Forse lo stesso discorso vale anche per il tecnico catalano che non è riuscito nella missione sulla carta più semplice: raggiungere una semifinale di Champions League oggettivamente alla portata.

Si è detto molto dei Citizens, si è parlato di una Cenerentola nel calcio dei grandi, capace di investire 800 milioni e dilapidarli, eliminare il Real Madrid e fermarsi sul più bello, a un passo dalla storia. Il calcio sta cambiando, non c’è dubbio e tutti quegli allenatori “integralisti” farebbero bene a rivedere le proprie convinzioni. Tra questi c’è sicuramente Guardiola, vero innovatore nel calcio moderno ma troppo legato alle sue idee e ai suoi principi. La parallela ascesa di tecnici come Flick con il Bayern Monaco e Nagelsmann con il Lipsia non può essere letta come una casualità. Lo stesso Rudi Garcia, vecchia volpe del calcio internazionale, ha conquistato la gloria grazie a tanto sacrificio, concetti semplici e grandissimo rispetto degli avversari.

Più dei fatturati, più dei grandi campioni contano quindi le idee e la capacità di adattamento a un gioco fluido e imprevedibile? In parte è vero, ma c’è una piccola premessa da tenere a mente. L’emergenza Coronavirus ha di fatto rimescolato tutte le carte in tavola, edulcorato i valori in campo, i calendari hanno condizionato non poco l’esito di questa fase finale della stagione, la condizione mentale e fisica dei giocatori è diventata una vera incognita. Così abbiamo visto soffrire Juventus e Atalanta e paradossalmente, dopo settimane di riposo, rifiorire Bayern Monaco e Lione. L’emergenza sanitaria e la decisione discutibile di far comunque riprendere la stagione sono diventati fattori determinanti per gli esiti sportivi di questa stagione 2019/20.

Tornando al Pep, è il filo conduttore delle cocenti eliminazioni in Champions ad alimentare i dubbi. È davvero lui l’uomo giusto per vincere in Europa? Le compagini affrontate sono sempre state inferiori per cifra tecnica. Si tratta di una questione caratteriale? Il tecnico catalano ha sì vinto ma non ha trasmesso quella giusta mentalità necessaria per andarsi a prendere il bottino pieno. Impossibile operare un confronto con l’era blaugrana. Quel Barcellona vinse tutto e non diede quasi mai segnali di cedimento. Messi, Xavi e Iniesta non sono minimamente Gabriel Jesus, Rodri o De Bruyne. Ciò che conta è però il risultato finale e qui leggiamo il fallimento dell’era Guardiola. Un fallimento parziale ma pur sempre un fallimento. Se a Barcellona si respira aria di rivoluzione, è bene interrogarsi sul presente di questo Manchester City, ancora acerbo per i palcoscenici più importanti o semplicemente poco umile per ammettere i propri errori.

Riccardo Amato

Atalanta e PSG: una lezione per due

Si preannunciava come la notte della storia. Una città, Bergamo, capitale di sofferenza e disagi causati dal Covid19, indossa il suo vestito migliore. Di fronte il Psg di Neymar e Mbappe e soprattutto tanti milioni per non credere all’impresa. Tuttavia il calcio non è scienza esatta, lo sa bene Gasperini che ci crede e che mostra all’Europa intera una grande squadra debuttante nella competizione che conta. Atalanta-Psg è Davide contro Golia, ma solo sulla carta.

Le intenzioni nerazzurre sono più che mai serie, arricchite da pressing a tutto campo, aggressività, convinzione e conoscenza di uno spartito che ha messo in difficoltà qualunque avversario. Non poteva che essere 1-0 firmato Pasalic. La Dea continua a macinare gioco, si infiamma, soffre, rischia: è questa la filosofia per trionfare in Europa. Conta più ciò che sei e che vuoi proporre rispetto alla preoccupazione dell’avversario. Il Psg sembra piccolo piccolo.

“O vinceremo o impareremo”, dice il Gasp nella conferenza della vigilia. Un po’ per mettere le mani avanti, un po’ per non essere troppo presuntuoso al cospetto di una squadra, quella francese, che insegue la Champions a suon di acquisti milionari. E se il solo Neymar costa più di tutta l’Atalanta messa insieme, in campo troviamo la prima lezione fondamentale: il calcio è un gioco di squadra. I nerazzurri di Bergamo si muovono all’unisono, si aiutano, hanno sempre un compagno a sostegno e uno in appoggio; dall’altra parte si strofina la lampada e si cerca di esaudire almeno un desiderio.

La seconda lezione è che questa è la competizione dei dettagli, degli episodi e in questo senso il calcio non perdona. L’Atalanta ha un paio di occasioni per mettersi al riparo da un probabile forcing finale del Paris, ma spreca. I transalpini, consci della loro superiorità tecnica, fanno scendere in campo il giocatore più forte del millennio.   

Altre indicazioni? L’esperienza e la qualità non sono mai abbastanza per ambire a traguardi importanti. La Dea gioca da grande per gran parte del match, ma le manca ancora qualcosa per il salto definitivo. Un salto che nessuno le ha chiesto o imposto. Questa è la grandezza della stagione di Gomez e compagni. E il Psg? Individualmente fortissimo, ma mai squadra. Il gol vittoria lo segna una riserva semi-sconosciuta ai più e questo ci insegna che un pizzico di fortuna, sì, può servire. La squadra di Tuchel è la somma di alcuni grandi giocatori, ma non è gruppo, pensa in maniera individuale ed egoista con il mito di Neymar. Il brasiliano mostra in 90 minuti tutto ciò di cui è capace. Pensate se fosse stato seduto sulla panchina di Gasperini…

Se c’è una squadra che deve porsi degli interrogativi, sono proprio i parigini, abili nello sfruttare il momento di stanchezza degli avversari, ma niente più. E allora si torna tutti idealmente a Bergamo con il sorriso, si dice “grazie” a questi ragazzi e si spera in un nuovo inizio per il calcio italiano. Questa Atalanta ci è sembrata così umana e vocina da sentirla come una seconda Nazionale.

Riccardo Amato

Questa è l’Inter di Conte

Pugni in cielo, petto in fuori e denti stretti: l’Inter è in semifinale di Europa League dopo un’ottima prestazione in terra tedesca contro il Bayer Leverkusen. Un 2-1 che nasconde un divario tecnico ben più ampio tra le due squadre, al netto di tante occasioni create (e poi sprecate) dai nerazzurri.   

Nella notte di Düsseldorf brillano le stelle di Romelu Lukaku (i gol stagionali sono 31, a -3 dal Fenomeno Ronaldo stagione 1997/98) e Nicolò Barella, vero e proprio predestinato e uomo simbolo delle notti europee. Sono passati dieci anni dall’ultima semifinale interista, allora in panchina c’era José Mourinho e dall’altra parte della barricata gli acerrimi medici del Barça targato Messi – Guardiola. Altri tempi.   

È evidente però come questo finale di stagione stia restituendo al mondo Inter quelle soddisfazioni che sono mancate in alcuni match chiave. Questa è finalmente l’Inter di Antonio Conte, regista e attore protagonista di una pellicola che potrebbe assumere i contorni del capolavoro.   

In un match da dentro o fuori, Lukaku e compagni dimostrano grande voglia, attenzione e concretezza. La costruzione dal basso è pulita e ordinata e ogni affondo si tramuta in una potenziale occasione da gol. A differenza della partita col Getafe, l’approccio è da grande squadra e il bottino pieno potrebbe essere già in cassaforte dopo 30 minuti.   

Colpiscono l’applicazione e l’abnegazione dei ragazzi guidati da Conte, sempre cattivi e feroci nel pressing e con le idee molto chiare. Un mostruoso Romelu Lukaku e una squadra che lo supporta magistralmente fanno il resto, con la consacrazione di alcune pedine come Barella e Bastoni che fanno sorridere la dirigenza. C’è persino spazio per i recuperati Godin e D’ambrosio, con la classe e l’imprevedibilità di Eriksen e Sanchez a spezzare gli equilibri nel secondo tempo.   

La sensazione è che l’Inter sia diventata l’Inter che tutti i tifosi vorrebbero vedere. Le notti d’Europa hanno storicamente agitato i sonni del popolo interista, che ora guarda con convinzione e fiducia a questa semifinale europea che profuma di storia. Antonio Conte è a un passo dal “massimo” che aveva stabilito come obiettivo per questo gruppo. Un’Inter no limits pronta a dire la sua anche in Europa.

Riccardo Amato

E se avesse ragione Conte?

“Vincere è l’unica cosa che conta”. Suona più o meno così il mantra bianconero. E di Juventus ha parlato molto Antonio Conte nelle sue ultime apparizioni. Esempi più o meno concreti, riflessioni, provocazioni. Chiamatele come volete, ma tutto ciò che gravita intorno al mondo Juve e alla parola vittoria, non può che costituire un tratto chiave del dna di un allenatore affamato e vincente.

Al suo primo anno in nerazzurro, Antonio Conte ha portato anche questo: una nuova mentalità. L’Inter era già diventata una creatura credibile grazie alla cura Spalletti, ma serviva quello spirito battagliero, quel “fuoco dentro” che rende un’ottima stagione straordinaria. Gli 82 punti conquistati in questo campionato sono lì a certificare la bontà del lavoro soprattutto psicologico messo sul campo dallo staff dell’ex commissario tecnico. E allora, verrebbe da dire, aveva ragione Conte? Detto dei modi e dei tempi con i quali ha sferrato i suoi attacchi alla società, viene da pensare a una nuova interpretazione della vicenda. Forse ha ragione lui, il condottiero di un gruppo che ha lottato e sfiorato imprese importanti (non solo il campionato, ma anche nelle qualificazioni Champions – Coppa Italia) e che ha sicuramente ridotto il gap con la Signora.

Il pianeta Inter resta qualcosa di difficile comprensione: allenatori strapagati che scappano indemoniati, grandi cadute e altrettanti trionfi sportivi. Vincere è qualcosa di difficile. “Pensavate che avrei vinto alla prima stagione” sussurra Antonio, la realtà è che ci è andato vicino. Che cosa manca a questa squadra e a questa società? L’abitudine alla vittoria e alla gestione delle difficoltà (vedi conflitti societari). Se per la prima conterà tantissimo il lavoro sul campo, la seconda resta il vero tallone d’Achille della società di via della Liberazione. Una società che si sta strutturando per diventare grande e per ridurre un altro importante gap. Quella stessa distanza tra una stagione ottima e una straordinaria.

Questo finale di stagione ci dirà molto sul grado di maturità raggiunto da questo gruppo, ma il problema, se esiste, potrebbe non essere la scelta del futuro allenatore. 

Riccardo Amato

Ho parlato con Sarri e mi ha detto che…

Maurizio Sarri è una persona semplice, che non disdegna la battuta e l’espressione colorita. Lo abbiamo apprezzato a Empoli, lo abbiamo conosciuto sulla panchina del Napoli come l’allenatore del “bel gioco”, lo critichiamo ora dopo le esperienze al Chelsea e alla Juventus, entrambe vincenti.

Questa vicenda dell’esonero mi ha talmente colpito e affascinato che anche io sono andato alla ricerca di qualche parola, una semplice battuta per coglierne l’umore e comprendere più a fondo le pieghe dell’universo bianconero. Si tratta ovviamente di una conversazione immaginaria e immaginata, ma non molto lontana da quella che sarebbe potuta essere la realtà.

Il tecnico toscano è in piedi a bordo campo, con il suo mozzicone di sigaretta spento da assaporare e mangiucchiare come fanno i bambini con il “ciuccio”. Un portafortuna. Mi guarda e mi sorride. Un’ironia tagliente la sua, un ghigno che sa di amaro, di “agrodolce” per citare il presidente Agnelli, ma in fondo Maurizio tutto ciò se lo aspettava.

“Se solo avessi avuto il tempo di lavorare”, sembra dire con i suoi occhi. Dopo essersi sistemato gli occhiali che scivolano sempre sul naso analizza il percorso e le cadute della sua stagione. “Siamo stati poco continui in alcuni frangenti, forse qualche sconfitta di troppo non è piaciuta alla dirigenza”. Non c’è posto per la delusione o la malinconia, piuttosto per l’orgoglio: “Però nei due scontri diretti contro l’Inter si è vista la mia Juve: cattiva, concentrata e cinica. Sono proprio quei 6 punti ad averci consegnato il tricolore”. 

Impossibile non parlare del “bel gioco” e di uomini. Lui, Sarri, ne avrebbe cambiati parecchi, ma sembrava quasi indelicato chiedere una rivoluzione a una società che continua a vincere e si sente giustamente sulla cresta dell’onda. La gestione di Ronaldo, la convivenza con Dybala, la resurrezione di Higuain. Quei senatori che un giorno ti amano e quello dopo si domandano perché.

Una piccola, grande convinzione. La Juventus è prima di tutto una azienda e come tale deve rendere conto dei propri risultati a tutti gli azionisti, perseguendo vittorie in campo sportivo ma anche organizzativo e finanziario. Gli chiedo se in fin dei conti, la figura dell’allenatore sia quasi secondaria in un contesto di tale valore. Si sistema nuovamente gli occhiali e mi risponde: “Non mi sono mai sentito protagonista e sapevo fin da subito che non sarebbe stato facile”.

Il passato napoletano, le feroci critiche e i confronti con i suoi predecessori non hanno certamente aiutato Mister Sarri, ora pronto per il meritato riposo. L’obiettivo minimo è stato centrato, il rammarico è quello di non essere riuscito a cavalcare quell’onda anomala. 

Riccardo Amato

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Juventus, L’Europa che conta

Maurizio Sarri era stato scelto dal presidente Agnelli per scrivere un nuovo binomio. Vittorie e bel gioco. E se sulla conquista del nono titolo consecutivo poco si può dire, il bel gioco non è certo arrivato. Ma c’è un ma e ci sono tanti se. Ma l’importante è vincere, primo comandamento bianconero. E poi via con una serie di se, tutti a favore del tecnico toscano. Dalla scelta dei giocatori poco affini alla sua idea di calcio, all’impossibilità, in Italia, di vincere sempre divertendo e convincendo, fino alla consapevolezza di doversi adattare a un ambiente in cui, l’allenatore, è semplicemente un ingranaggio in un meccanismo molto più complesso.

La Juventus di Sarri ha diviso. E in tanti sono pronti a riconoscere questa squadra come la meno convincente degli ultimi anni. Se poi ti trovi gente come Cristiano Ronaldo e Dybala, con il lusso di “riserve” come Douglas Costa e Higuain pronte a subentrare e risolvere le partite, vincere in Italia non è certo un problema. E allora ecco l’Europa, la vera ossessione sportiva di chi ama la Juve e di chi fa il tifo perché possa “bucare” per l’ennesima volta. E qui torniamo al “bel gioco”, concetto trito e ritrito, condizione non necessaria e nemmeno sufficiente per trionfare entro i confini nazionali, requisito richiesto se vuoi competere tra le migliori 8 del continente.

Essere belli può voler dire ad esempio subire poco e quindi essere efficaci, dare completa soddisfazione ai propri tifosi, mascherare i propri punti deboli. Da questo punto di vista la Juventus ha dimostrato di essere meno “grande squadra” di quanto ci si potesse aspettare. Un dato? I 43 gol subiti e le 7 sconfitte subite in Serie A, ma anche la cattiva gestione di match ormai in tasca o la fragilità difensiva. Problemi di concentrazione che in Champions League possono costare cari.

È l’Europa che conta, per prestigio, autorevolezza, credibilità e anche da un punto di vista economico. Lo sa bene il presidente Agnelli, che pare essere ancora indeciso sulle scelte da compiere per la prossima stagione. Questa Juventus-Lione è già una “prova del nove”. Persino i tifosi aspettano l’esito di questo ottavo di finale per dare un voto definitivo all’annata bianconera, con Sarri primo imputato. Vincere e convincere. Non sarà facile, ma ci dirà a che punto sono la migliore squadra italiana e di riflesso tutto il movimento.

Riccardo Amato

Stop Conte: dentro Allegri?

Avere tutto per non avere niente. Il paradosso di Antonio Conte e di questa pazza Inter è proprio questo. I grandi annunci della società (seguiti da grandi colpi sul mercato come Eriksen e Lukaku) non hanno portato alle conferme del campo. I nerazzurri arrivano sul secondo gradino del podio e distruggono tutto ciò che di buono è stato fatto.

Antonio Conte smaschera i limiti di una squadra mai veramente in corsa per lo scudetto e attacca la società con una ferocia inaudita. E adesso è il tempo delle decisioni. Sì perché quello delle riflessioni è gia passato. Il rapporto con la dirigenza, gli attacchi dei media e una campagna acquisti probabilmente non condivisa dall’ex c.t. sono elementi che hanno fatto traboccare il vaso. Chi si aspettava un finale improntato all’ottimismo per il futuro prossimo è rimasto deluso. E ora che succede?

I modi e i tempi di queste dichiarazioni non sono piaciuti alla dirigenza. Lo sfogo fa pensare che qualcosa sia già successo. E allora eccoci a parlare di un dopo Conte (incredibile, ma vero!), con il buon vecchio Massimiliano Allegri che avrebbe già dato la sua disponibilità per una nuova corsa, sponda nerazzurra, verso un progetto vincente. La società di Viale della Liberazione ha la grande chance di dimostrare la solidità delle proprie idee. La missione resta la stessa di dodici mesi fa. Con o senza Conte, Steven Zhang e i suoi consiglieri hanno poco meno di un mese per riallestire un set con tanti attori protagonisti già presenti, aggiungendo magari un paio di tasselli per un’Inter affamata di vittorie.

Riccardo Amato