Luca Piazzi non è soltanto il Direttore sportivo del Settore giovanile del Parma. Dalle sue parole emergono una grande competenza e una sana voglia di cambiare con il lavoro un sistema in difficoltà. Il mondo del calcio è in continua evoluzione: in Italia non servono soltanto idee ma anche proposte e azioni di pari livello.
Quale esperienza le ha permesso di comprendere il suo ruolo?
“Sono diventato professionista quasi per caso. L’esperienza con il Südtirol mi ha permesso di capire che questo sarebbe stato il mio lavoro anche in futuro. Non mi sono mai considerato un professionista ma un semplice appassionato. La mia vita la sto dedicando al calcio”.
In fase di programmazione è meglio avere idee o risorse economiche?
“Le idee ti permettono di realizzare qualunque progetto. È chiaro che certe situazioni aiutano e servono a migliorare”
Come valuta l’avvento della nuova proprietà a Parma? Si è parlato anche di giovani?
“Le proprietà straniere stanno portando nuova linfa e ci possono aiutare ad uscire da un sistema che non si rinnova. L’idea condivisa è quella di lavorare a qualcosa che rimanga nel tempo: strutturare i club e ragionare non solo in termini di risultati”.
Quali possono essere le difficoltà?
“Coniugare l’idea di un club moderno all’esigenza di risultati tipica della realtà italiana. Questo è il primo scoglio da superare”.
Il debutto di un giovane in Serie A: punto di partenza o di arrivo?
“Per un calciatore direi un punto di partenza, per noi addetti ai lavori un punto di arrivo. Stiamo parlando del vero risultato per il Settore giovanile. La qualità del lavoro ti aiuta a raggiungere quel traguardo. Il risultato fine a se stesso non è mai un obiettivo, conta la crescita dei ragazzi. Solo così vinci anche le partite. Il risultato è dunque la conseguenza di un buon lavoro e di buone prestazioni”.
Che cosa le ha insegnato questa pandemia?
“La situazione non ci ha aiutato ma dobbiamo far tesoro anche degli aspetti positivi. La gestione degli imprevisti, ad esempio. La riflessione su alcuni giovani, in particolare U15 e U16, impegnati in test match che sono risultati più formativi del campionato. Tutte esperienze importanti che aiutano a crescere”.
Ha mai cambiato idea durante il suo percorso?
“Certo. Cambio idea spesso. Preferisco dei collaboratori che non siano degli yes man ma che esprimano le loro opinioni. Chi ha delle idee contagia gli altri e ti fa migliorare. Viviamo in un mondo veloce e all’interno di un sistema che si rinnova poco. Dobbiamo essere consapevoli che da un anno all’altro possa cambiare tutto”.
Che cos’è il talento?
“Il talento potrebbe anche non avere una definizione univoca. Un giocatore in grado di calciare bene in porta ma che non ha valori, ad esempio, ha talento? Ricerchiamo un’alchimia di vari elementi. Una squadra ha bisogno di più contributi. Chi sa difendere, chi sa recuperare palla, chi sa stare bene in un gruppo…per questo parlerei di più talenti, più skill. Diventano poi fondamentali la gestione e la valorizzazione del talento da parte degli allenatori”.
A che punto è il Settore giovanile del Parma?
” Siamo al 50% di un processo in continua evoluzione. Abbiamo voglia di migliorare. Soltanto accumulando esperienze e credendo nel tuo lavoro raggiungi l’obiettivo. Sono contento e orgoglioso del nostro percorso”.
La retrocessione della prima squadra in Serie B avrà delle conseguenze anche sul vostro lavoro?
“Le conseguenze immediate riguardano il morale dell’ambiente e l’acquisizione di calciatori. L’appeal sarà diverso. Tuttavia la società è forte e i programmi non dovrebbero cambiare”.
Infine, questo modello di calcio è sostenibile?
“Siamo indietro rispetto ad altri Paesi. A partire dalle rose, costituite per la maggior parte da calciatori stranieri, fino ad arrivare a tematiche più vicine alla vita di tutti i giorni. Le attività motorie dei bambini e dei ragazzi, il rapporto tra scuola e calcio, l’educazione ad una vita sportiva. Questi problemi non si risolvono solo con l’intervento dei club. Sarebbe di grande aiuto l’intervento dello Stato, delle Federazioni e del Ministero dell’Istruzione”.
Sono passati alcuni giorni dall’annuncio che nessuno si aspettava. Nessun giornalista italiano aveva informazioni sul suo arrivo, nessun giornale si è mai lanciato in un’ipotesi tanto clamorosa quanto suggestiva. Ma José Mourinho è arrivato. Lo ha fatto alla sua maniera. Non importa se l’anno prossimo verrà ancora (in parte) stipendiato dal Tottenham, il club che l’ha cacciato. La tentazione di ripartire subito, anzi di continuare il suo lavoro era troppo forte. Il tecnico di Setubal torna in Italia dopo aver vinto tutto con l’Inter, ma senza tradire i cuori nerazzurri.
La scelta di allenare la Roma è di per sé una notizia. La nuova proprietà ha colto un’opportunità più unica che rara, un po’ come fece la Juventus nel 2018 acquistando Cristiano Ronaldo. Entrambi portoghesi, entrambi esperti nel saper vincere e catalizzare ogni attenzione mediatica e non su di sé. Ed ecco i primi benefici dell’operazione #MouRoma. Follower e like alle stelle e titolo in borsa che chiude per eccesso di rialzo. Tutto calcolato? Più o meno.
Radio Mercato insisteva con il nome di Sarri, la scelta più giusta per mille motivi. Ciò che ci hanno insegnato queste nuove proprietà straniere è che non bisogna mettere un freno ai propri sogni. Mourinho sbarca nella Capitale per vincere. Nessuna mossa strategica. La Roma si iscrive alla corsa al titolo per la stagione sportiva 2021/22. Quella che vedrà probabilmente un altro ritorno illustre, quello di Massimiliano Allegri alla Juventus, quella che partirà con lo scudetto cucito sul petto dell’Inter del nemico Antonio Conte.
Certo, non sarà facile, ma le intenzioni dei Friedkin sono chiare. Tutto l’ambiente è alla disperata ricerca di quella stabilità che soltanto i grandi risultati sportivi possono consegnarti. La Roma ha bisogno di credibilità. Possiamo parlare di rinascita o rivincita, ciò che conta è cancellare questa stagione e ripartire. Chi meglio dello Special One? L’unico uomo di calcio in grado di spostare l’attenzione quando serve o attrarla per far cadere nella trappola i giornalisti e le redazioni di ogni angolo del pianeta. Manipolatore, mago, illusionista. Psicologo e attento studioso di uno sport in continua evoluzione. Ci sono già due date da segnare sul calendario (appena saranno rese note): Inter – Roma, ovvero il ritorno a San Siro dell’artefice del Triplete e ovviamente la data della sua prima conferenza stampa.
Daje Roma. Sono queste le prime parole di un manager che sfida per l’ennesima volta se stesso. La tentazione di stupire il mondo contro quel fisiologico e lento declino di un vincente che sembra aver perso un po’ di smalto. Gli ultimi trofei risalgono al 2017 e sono targati Manchester United. Facile pensare che l’obiettivo più realistico per la prossima stagione sia la qualificazione in Champions League. Questa volta i rischi sono molto più alti della probabilità di vittoria.
Persino la Serie A che ritrova è davvero cambiata. Nel 2010 soltanto un paio di squadre potevano mettere in difficoltà la capolista, mentre ora si viaggia a una media punti che giustifica il sottotitolo “La Serie A delle sette sorelle”. Nuove difficoltà, nuovi grattacapi per colui che cercherà l’impresa nella città della storia. Vincere per l’immortalità. Ritrovare se stesso e scrivere una nuova pagina personale e sportiva. Entrare nella leggenda. Non esistono alternative, né tantomeno compromessi. In quel caso non si chiamerebbe Mourinho.
Inter, è tuo! La stagione 2020/21 passerà alla storia come la stagione del trionfo. Lo scudetto numero diciannove per il club di Viale della Liberazione a Milano. Un successo nerazzurro per definizione. Al termine dell’annata più complicata, raggiunto matematicamente dopo 34 giornate. Uno scudetto che vale molto per la città di Milano e per i milioni di tifosi sparsi in tutta Italia da Nord a Sud. Un traguardo pianificato, programmato, a volte nascosto per scaramanzia o per paura che qualcosa potesse girare storto. Una squadra un po’ incerta ai blocchi di partenza, condizionata dalle fatiche della passata stagione (conclusa con il secondo posto in campionato e la finale di Europa League) e da una pandemia che ha frenato le ambizioni di tutti.
UOMINI
Poi la convinzione dei propri mezzi, la fede nel lavoro e la fame di vittoria si sono fusi in uno stile di vita. Quando vinci per la prima volta (ed è il caso di molti calciatori presenti nella rosa nerazzurra), qualcosa cambia dentro di te. Dall’1% di probabilità di vittoria al 100%, in due anni, per citare Antonio Conte. Lo scudetto della credibilità, perché se prendi il tecnico più vincente sulla piazza, tutti si aspettano faville. Alcune scelte impopolari, per dirla alla Marotta, una grande cultura del lavoro, per seguire l’esempio del vice presidente Javier Zanetti. E poi sempre lui, quel Lele Orialitrait d’union tra squadra e società, che quando si vince è sempre presente. Ripercorriamo questa cavalcata. Un’impresa straordinaria che sa di storia.
IL VOLTO DELLO SCUDETTO
Quello di Antonio Conte, chiamato per vincere subito con un club disabituato a lottare per il vertice. Quando è arrivato all’Inter, i nerazzurri navigavano ben distanti dal primo posto della classifica, a più di venti punti dalla Juventus campione d’Italia. Al primo anno ha reso ammissibile un gap con i bianconeri che si è notato solo nel doppio confronto. Il percorso in Europa League è stato straordinario. Una squadra compatta, concentrata, solida, con dei problemi da risolvere e alcuni giocatori chiave non certo pronti al salto. La voglia di riscrivere il proprio destino. Lo scudetto numero diciannove è figlio del lavoro e di una grande mentalità. Il paragone con Mourinho ci sta tutto: vincere è difficile, tornare a vincere dopo anni nei quali non sei protagonista, lo è ancora di più.
BIG ROM
Il campione belga è stato l’acquisto più oneroso degli ultimi tempi. L’eventuale apporto all’ombra della Madonnina in termini di gol e di leadership non è mai stato messo in discussione da chi l’ha voluto fortemente. L’attaccante non ha deluso le aspettative, anzi ha sorpreso. La sua grande fisicità gli ha permesso di vincere parecchi duelli fisici con chi ha provato ad arginarlo, l’intelligenza tattica e il lavoro in allenamento gli hanno permesso di cambiare in meglio. Un attaccante moderno sa quando è il momento di evolvere il proprio gioco. E la squadra ringrazia. Protagonista anche nella rifinitura, uomo squadra e catalizzatore della maggior parte delle azioni offensive dei nerazzurri. Lukaku ha fatto la differenza segnando gol pesanti. Insieme a Lautaro Martinez ha spinto l’Inter verso la vittoria. Una coppia gol considerata dagli avversari l’arma letale da temere e rispettare.
TAGLIA E CUCI
Un lavoro silenzioso e meticoloso quello dell’A.D. Marotta. Le difficoltà ci sono state. Vivere all’interno le dinamiche del club più tormentato non dev’essere stato facile. L’obiettivo è sempre stato ambizioso e aveva come presupposto uno sforzo generale enorme: cambiare con il lavoro il corso degli eventi. Una società come l’Inter avrebbe dovuto crescere ed essere rispettata anche al di fuori del campo. La supervisione dall’alto del lavoro di Conte e le strategie (messe in atto assieme all’A.D. Antonello) per combattere la crisi economica. Un lavoro di taglia e cuci che viene premiato con la grande gioia di riportare l’Inter in alto. Dove merita di essere. Il duo Marotta – Conte si è rivelato vincente per la seconda volta. Anche la famiglia Zhang ci ha visto bene quando ha chiamato il dirigente più esperto della Serie A. Due anni di risultati di primissimo livello, con la concreta possibilità di aprire un ciclo. Ad alti livelli nulla è casuale. Questo successo nasce dalle idee e dalle competenze dei migliori manager del panorama nazionale ed internazionale. Le scelte in sede di calciomercato si sono rivelate corrette, al netto di qualche infortunio di troppo.
CHRISTIAN ERIKSEN
26 gennaio 2021. Punizione vincente contro il Milan in Coppa Italia e passaggio del turno. È questo il momento della svolta del talentuoso centrocampista danese. Con un anno di ritardo la Serie A scopre uno dei suoi giocatori più iconici. Un calciatore in grado di migliorare il rendimento di chi gli sta attorno. Un leader tecnico che è riuscito ad adattarsi alle richieste di un allenatore che lo voleva più attivo in fase di non possesso. Un calcio completamente diverso da quello inglese. Trovate le giuste misure, il suo contributo è stato determinante. A lungo relegato in panchina, questa squadra aveva bisogno della sua classe e della sua esperienza. Il gol al Crotone è il simbolo della stagione della sua rinascita. Quando le partite diventano difficili, poter contare sui colpi di un calciatore come Eriksen diventa fondamentale.
L’ATTESA
Vincere all’Inter non è mai una cosa scontata. Lo sanno bene i campioni che hanno vinto tutto, lo hanno compreso quei senatori che hanno continuato a lavorare per anni in attesa di un premio. Andrea Ranocchia e Samir Handanovic sono i testimoni di un decennio sportivo che ha visto sempre prevalere gli altri. Nonostante gli sforzi e qualche ottima prestazione. Una lunga attesa. La storia cambia proprio con l’avvento di Antonio Conte. Dopo le delusioni, ecco la luce. Tutto l’ambiente inizia a crederci e lavora per il massimo obiettivo. Il portiere sloveno conquista il suo primo scudetto nell’annata più sfortunata, in concomitanza di un fisiologico calo di rendimento. Spesso i suoi miracoli non hanno permesso di alzare un trofeo. Quasi sempre un portiere vincente è protetto da un muro. Skriniar – De Vrij – Bastoni come Barzagli – Bonucci – Chiellini alla Juventus. Andrea Ranocchia è il capitano morale di un gruppo che si è compattato nelle difficoltà. Mai smettere di sognare. Mai pensare all’io quando c’è un noi da valorizzare e da scoprire.
CRISI
La parola più abusata, insieme a processo, quando si legge di Inter sui giornali. La squadra mediaticamente più esposta e bistrattata dalla stampa, forse anche per demeriti propri (vi ricordate la talpa ai tempi di Spalletti?). Una vittoria contro tutto e tutti. In primis contro lo scetticismo e il pessimismo cronico. L’ambiente nerazzurro esce da quella depressione sportiva che si era tramutata quasi in alibi. Come nel 2010, la società e la squadra corrono insieme verso l’obiettivo e possono contare su uomini veri. La crisi è stata delle altre squadre. Milan e Juventus su tutte, ancora impegnate a combattere per la qualificazione alla prossima Champions. L’Inter è forza, continuità, sacrificio, umiltà e coraggio. Quel “testa bassa e pedalare” diventato mantra. I fatti più delle parole. Un unico obiettivo in testa. La vittoria. E chi dice che l’Inter era solo contropiede? Il gioco non dev’essere solo piacevole ma efficace. In Italia non esiste ancora (e forse mai esisterà) una cultura del gesto, semmai dell’obiettivo, del risultato.
Un popolo in festa, una città che si risveglia in tutta la sua grandezza. Un mare di tifosi che sprigiona il suo entusiasmo e rinnova il suo legame d’amore con la squadra che non scegli. È lei che sceglie te. In tempi di pandemia, l’unica restrizione, la più pesante, è stata veder trionfare i colori bianconeri. Quanta gioia, quanta soddisfazione. Un pensiero agli interisti che non ci sono più e che avrebbero dato qualsiasi cosa per vivere questo momento. L’Inter è campione d’Italia!
Sono felice di conoscere e farvi conoscere un allenatore giovane, emergente, di cui si parla un gran bene. Chiacchierando con lui ho imparato che il calcio è ricerca oltre che impegno e passione. Le soluzioni esistono a patto che le domande siano più delle risposte. Come è cambiato il mestiere dell’allenatore di calcio?
Ci risponde Erminio Russo, allenatore della Primavera del Novara, giunto al momento topico della sua carriera. Quel momento in cui consapevolezza ed esperienza ti aiutano a pensare in grande e a porti nuovi obiettivi. Il lavoro sul campo, le persone che incontri e che ti ispirano, le scelte che possono accelerare un percorso o farti tornare indietro. L’importante è credere nelle proprie capacità e non tradire se stessi.
Alle origini della tua carriera da calciatore. Gli anni nel Settore giovanile dell’Inter non si possono dimenticare.
“Un periodo fantastico della mia infanzia e soprattutto una palestra di vita. Dal punto di vista formativo ho imparato molto e ho coltivato il sogno di diventare un calciatore. Fuori dal campo eravamo tutti molto controllati e sapevamo come comportarci. Percepivo già un senso di attenzione e responsabilità che avrei sviluppato da grande”.
Il salto: la carriera da allenatore. Possibilità o scelta?
“Una scelta. Mi è sempre piaciuto rubare qualcosa agli altri allenatori che ho conosciuto. Capire per poi proporre una mia idea di calcio, una soluzione a un mondo complesso. Un pallone e infinite possibilità”.
Un antico proverbio dice: “Non è tutto oro quel che luccica”. Può tornarci utile parlando anche del mondo del calcio?
“In dieci anni di carriera mi è capitato di affrontare anche delle difficoltà. Non è un mondo facile. Alcune persone mi hanno sicuramente aiutato. È una professione che ti costringe a fare delle scelte. Se vuoi crescere e migliorare continuamente non devi fermarti. In quei momenti ho cercato di guardare un po’ più in là e intravedere la meta”.
Credi sia necessario a volte scendere a compromessi?
“Non bisogna snaturarsi. Dal confronto con le altre persone e dalla condivisione nascono le idee migliori. Non c’è invidia tra allenatore e collaboratori. Siamo una squadra e abbiamo in testa un unico obiettivo. È importante il “come” più del “che cosa” proponi in campo”.
Quali sono gli allenatori che più ti hanno ispirato?
“Guardiola e Bielsa sono due mostri sacri che tutti ammirano. In Italia ci sono diversi allenatori preparati. Uno su tutti, Roberto De Zerbi. Ha grandi conoscenze dal punto di vista tecnico – tattico ed è un maestro nella gestione dei giovani calciatori”.
La Primavera. Si parla tanto di squadre B e del futuro di questi ragazzi. Ma come arrivano a questo step? Sono preparati e pronti a ciò che li attenderà?
“La Primavera rappresenta quel trampolino di lancio verso un futuro più o meno luminoso. Bisogna continuare a dare ai ragazzi. L’aspetto umano è molto importante. Prima di tutto cresciamo uomini. Il calcio è, in questo senso, una scuola di vita. Non tutti i ragazzi che arrivano a questo punto della loro carriera diventeranno dei calciatori. Dobbiamo comprenderlo e accettarlo. I calciatori che ho a disposizione sono pronti ma non sono calciatori finiti”.
Come ti trovi a Novara?
“A Novara so che posso contare su due figure di riferimento e di assoluto spessore come Marco Rigoni (Responsabile del Settore giovanile) e Marco Regina (Responsabile della Metodologia del Settore giovanile). Abbiamo obiettivi ambiziosi e crediamo nel nostro lavoro. Sono nell’ambiente ideale per fare calcio. Sintonia, passione e idee ci stimolano a fare del nostro meglio. La società ci ha messo a disposizione delle strutture fantastiche che agevolano il lavoro di noi allenatori. I pilastri del nostro lavoro convergono in un’unica idea: creare il giocatore e portarlo con volontà in prima squadra. Coraggio e senso di appartenenza sono valori che animano anche i calciatori delle altre categorie. Abbiamo un modo di fare e un linguaggio comuni. Siamo una grande squadra”.
Qual è il tuo mantra? In cosa credi?
“Continuare a insegnare e non smettere mai di imparare sono i due capisaldi del mio pensiero. L’allenatore è un insegnante di vita. Solo passando attraverso una crescita personale puoi migliorare te stesso e chi ti sta attorno”.
L’esperienza a Lugano: un altro mondo, un’oasi felice, un laboratorio…definiscila con le tue parole
“Una pagina fondamentale della mia storia. Mi sono confrontato con una cultura diversa da quella italiana e devo dire che la Federazione svizzera lavora con competenza attraverso linee guida importanti. A Lugano ho imparato a sperimentare e a crescere insieme. Non a caso si parlava di laboratorio. Forse in quegli anni ho capito che sarebbe stato questo il mio mestiere. Sento ancora le persone che hanno condiviso con me quegli anni sul campo e fuori”.
La tua idea di calcio
“Lavoriamo per principi e cerchiamo di essere sempre padroni del gioco. Le individualità devono essere al servizio del collettivo, i calciatori devono essere abili nella gestione della partita. Quest’ultimo focus deriva dal lavoro settimanale, dalle conoscenze acquisite durante la formazione del giovane calciatore. Un obiettivo importante è quello di far crescere giocatori pensanti”.
Cosa ne pensi di tutta questa filosofia applicata al calcio? In fondo è un gioco semplice. Ci stiamo allontanando dalla sua vera essenza?
“Va bene la teoria, ma il ruolo dell’allenatore vive anche di praticità e pragmatismo. Ogni volta cerchiamo di aggiungere quel dettaglio in più che possa far spostare l’ago della bilancia dalla nostra parte”.
Si può dire che negli ultimi anni il mestiere dell’allenatore sia diventato ancora più complicato?
“L’allenatore è un ruolo difficile. Oltre alle responsabilità devi essere in grado di convivere con la pressione. Spesso è necessario uscire dalla tua comfort zone. La tua credibilità e la capacità di gestione del gruppo fanno la differenza. Non esiste l’io ma il noi. L’aspetto umano e la tua sensibilità con i ragazzi ti permettono di conoscere e affrontare le difficoltà che si possono presentare”.
Come ti comporti quando conosci per la prima volta i tuoi nuovi giocatori? Parli singolarmente con ognuno di loro? Qual è il tuo approccio?
“Credo molto nel valore delle relazioni. Avendo a che fare con 26 ragazzi so che ognuno è diverso e ha le sue necessità. Ricerchiamo il dialogo e poniamo grande attenzione all’aspetto mentale. Assieme al mio staff siamo consapevoli delle sfaccettature dei nostri ruoli e dei diversi compiti. Colgo l’occasione per presentarli e ringraziarli: Stefano Pavon (preparatore atletico), Simone Dellara (preparatore dei portieri), Davide Micillo (responsabile dei portieri), Filippo Dalmoro e Filippo Galbiati (i miei due collaboratori). A volte mi sento psicologo, altre fratello maggiore, altre ancora papà. Osservo e cerco il controllo della situazione. Il confronto con me stesso e con il mio staff diventa una risorsa fondamentale”.
Grande umanità e aspetti cognitivi sono due ricette del vostro lavoro
“Dal punto di vista cognitivo so che i miei ragazzi sono reattivi, si sentono coinvolti. Spesso mi chiedono il perché di una esercitazione, interagiscono. L’interpretazione e la loro elaborazione personale rendono l’allenamento uno strumento prezioso per crescere non solo come calciatori. Le mie risposte conducono a una nuova riflessione e a volte, proprio quando penso di aver trovato una soluzione, è il momento di cambiare strada”.
Il mestiere dell’allenatore è una vocazione, un richiamo di una qualche entità spirituale che ti assorbe e si impadronisce di te. Dalla riflessione e dal continuo miglioramento nascono nuove idee per il calciatore di domani. Erminio Russo ha terminato il suo allenamento, è felice ed è pronto a rimettersi in gioco ancora una volta. In fondo “siamo il prodotto dei nostri pensieri, l’importante non è vincere ma pensare in modo vincente”.
Il giorno dopo la semifinale di Champions League tra Psg e Manchester City ci chiediamo se lo spettacolo in campo sia stato all’altezza delle aspettative. I parigini ritornano in semifinale per il secondo anno consecutivo, mentre i Citizens provano a superare i propri limiti e a cancellare le delusioni delle passate stagioni. Se in campo troviamo alcuni dei migliori giocatori del pianeta, analoghe considerazioni valgono per i due personaggi seduti in panchina.
Un maestro di calcio da una parte, un tecnico estremamente preparato nel momento perfetto della sua carriera dall’altro. Questo è lo scontro tra titani Pep Guardiola versus Mauricio Pochettino. Barcellona in comune (il tecnico argentino ha guidato l’Espanyol) e un sogno davvero grande. La viglia di questo attesissimo match è stata stemperata nei toni dal tecnico catalano. “Cosa ho imparato da Cruyff? Che in partite come questa l’importante è divertirsi, godersi il momento”. Strategia? Forse. I numeri dicono che questo è l’ultimo appello per la squadra padrona della Premier League sì ma mai vicina al trofeo più prestigioso.
L’undici iniziale del City non sorprende se ci si allinea al pensiero del tecnico capace di vincere 30 trofei in carriera. “Un giorno giocherò con soli centrocampisti, penso sia possibile”. Se quel giorno è arrivato, è persino riduttivo parlare di ruoli semmai di funzioni. Gioco e divertimento devono prevalere sull’ansia da prestazione. Le pressioni però si avvicinano inesorabilmente ed ecco che il primo tempo è già uno specchio dell’anima. Quarantacinque minuti che vedono prevalere un Paris ben organizzato, geometrico, efficace e che può contare su due stelle: Neymar e Mbappé.
Capiremo presto che per certi versi non sarà la serata di nessuno dei due. A salvarsi è sicuramente il brasiliano, abile nello stretto e rappresentante di un verbo calcistico comprensibile a pochi. Ci si aspettava molto di più dal francese, nuovo golden boy e futuro Pallone d’oro del calcio mondiale. L’uno a zero lo firma Marquinhos che salta indisturbato in area e ci ricorda un piccolo dettaglio. Gli episodi contano.
La Champions è la competizione dei dettagli. L’errore imperdonabile sarebbe cambiare canale perché in quel caso, soltanto qualche minuto dopo, apparirebbe in tv la faccia di Pochettino. Un’espressione, quella del secondo tempo, che tradisce ogni emozione. Un uomo solo, sconsolato, incapace di comprendere l’evoluzione di una partita che sembrava in pugno. Il City ha ripreso a macinare gioco. Il gol del pareggio di De Bruyne è forse più un’incertezza del portiere avversario. Gli episodi pesano. Ecco che la seconda frazione di gioco diventa un monologo degli uomini di Guardiola, che non cambiano, non si snaturano, soffrono e vengono premiati.
Più delle fiammate di Mbappé o delle finte di Neymar, ciò che ci insegna questa partita è una sorte di morale sportiva. Quel “Ritenta, sarai più fortunato” che leggiamo in qualche concorso a premi, questa volta sorride al City. Sono stati diversi i tentativi, altrettante le delusioni. Sembrava quasi che la vittoria in Premier League non bastasse più. Il gioco, gli uomini e gli episodi sono a favore del Manchester City, a un passo dalla finale.
Che gioco strano il calcio. Incredibile, indecifrabile. Due squadre ricche di campioni, tutto ciò che di meglio il calcio moderno può offrire e poi, una palla che varca la linea di porta e cambia destini. “La storia siamo noi”, dirà Guardiola, citando De Gregori. Il successo, la meta, sono quei premi per chi non ha abbandonato il proprio sogno e non ha smesso di lottare. Questa nuova chance viene abbracciata dalla squadra inglese come una liberazione. Un nuovo inizio, la conferma che il lavoro sul campo e solide convinzioni hanno plasmato una nuova mentalità sportiva.
È tempo di nuove storie sul Blog di Riccardo Amato. Momenti e parole per ricordare un percorso, interrogarsi sul futuro e credere nella bellezza dei propri sogni. A 18 anni, quando fai il calciatore, è il momento di svoltare. Salire su quel treno che ti porterà alla prossima fermata della tua carriera. Giosuè Conte può dire di essere passato attraverso quella gavetta che porterai per sempre dentro di te. Quando incontri persone e stringi legami che ricorderai per sempre. E ora, dopo tanto lavoro, la grande occasione. Quel treno potrebbe passare a breve. In una foto che lo ritrae da piccolo, indossa la maglia numero 10. Il trequartista ha da sempre grandi responsabilità.
Giosuè è uno dei tanti ragazzi che amano il calcio. La sua storia, nel mondo dei dilettanti, fa rima con Accademia Inter, Centro di formazione del club nerazzurro e serbatoio di grandi talenti. “Qui sono cresciuto tanto e ho imparato le basi del calcio. Non basta essere bravi sul campo, devi dare il meglio anche fuori. Peccato non essere riusciti a vincere quel titolo con gli Allievi…”. Da piccolo si notavano in campo la sua forza fisica unita alla tecnica, fuori dal rettangolo verde il suo essere un “gran bravo ragazzo”.
Questione di comportamento e di testa. Le tue qualità possono aprire porte, ma una volta entrati in un nuovo ambiente dipende tutto da te. “Ho trovato un ambiente rigido ma giusto, sapevo che avrei avuto visibilità e devo ringraziare quelle figure che mi hanno accompagnato. Una persona in particolare? Direi uno dei miei allenatori, Francesco Muoio, un tecnico preparato e davvero importante per il mio percorso”.
A volte è così facile e spontaneo vivere di ricordi. Anche per i più giovani. Dopo la scuola, quando Gio correva agli allenamenti, c’era sempre nonno Rino alle sue spalle. Una figura importante, solida, capace di aiutarti e supportarti sempre. “Sono cresciuto insieme a lui, mi accompagnava agli allenamenti per poi restare a guardare, un grande appassionato”. Chissà cosa si dicevano quei due, chissà se nonno Rino avrebbe immaginato quel salto tra i professionisti, ora che Giosuè è un promettente calciatore della Primavera della Triestina. “Lui ci credeva, certo. E mi diceva di non pensare troppo. Non bisogna snaturarsi per piacere agli altri. Può essere utile accettare dei consigli, ma poi bisogna scegliere con la propria testa”.
Pane e calcio. Non è certo una novità per noi italiani. Ci sono anche altre passioni, altri interessi nel mondo di questo diciottenne. Quello di Giosuè è davvero sorprendente. “La cucina mi piace molto. È un mondo che mi attrae e mi diverte. Osservo e cerco di imparare dai migliori, adoro la serie Masterchef. Immagino i sapori e curo i dettagli. Il piatto deve essere anche piacevole alla vista oltre che al gusto. La mia specialità? Sto lavorando al calzone”. Vista l’ora, abbiamo già l’acquolina in bocca. Sarà bravo come con il pallone tra i piedi?
Che cosa riserverà il futuro? Dove sarà Giosuè tra cinque anni? “Spero di coronare il sogno di diventare un calciatore professionista. Questo è il mio momento. Sto per concludere la cosiddetta “Università del calcio” per accedere al mondo del lavoro”. Il presente si chiama Triestina. In campo le doti di questo attaccante non sono in discussione. Parliamo di un calciatore che sa abbinare qualità (assist) a marcature importanti. Quando il gioco si fa duro, Giosuè non si tira indietro e va a prendersi le sue responsabilità. Con alcuni colpi alla Ibrahimovic.
“La Triestina rappresenta per me un importante punto di partenza. La mia testa è al presente, poi si vedrà”. Intanto la grande soddisfazione di aver già partecipato agli allenamenti con la prima squadra di Mister Pillon. “Con i più grandi cambia davvero tutto. Dallo spogliatoio al ritmo nelle esercitazioni sul campo, fino al comportamento di questi grandi professionisti. Servono grande impegno e dedizione, anche il talento va allenato”. Il sogno più grande? “Scendere in campo a San Siro. Che soddisfazione e che orgoglio!”.
Esiste sempre un calciatore al quale ispirarsi. “Neymar mi fa impazzire. Avete visto cosa è capace di fare?”. L’idea di talento si colora di verde e di oro, con la consapevolezza che si debba restare concentrati. “Credo nel lavoro. Le mie priorità sono la famiglia, per l’amore che ti dà, il calcio e le relazioni con le altre persone”. Tra le pieghe scorgiamo anche una sapiente dose di autocritica. Giosuè corre consapevolmente il rischio di essere troppo esigente con se stesso. “Sicuramente sì. Mi è capitato recentemente di fare gol ma di pensare a quelli sbagliati”. Un modo di fare e una testa dura che ricordano un altro personaggio di queste storie di calcio, Antonio Altieri (qui la sua intervista). “Ho letto la sua storia e ho trovato delle similitudini rispetto al mio percorso”.
Il calcio non è solo uno sport, è un pezzo di vita. “Questo sport mi ha dato tanto, a partire dalle persone che ho conosciuto, nelle società nelle quali ho giocato, fino ai valori come il rispetto e l’educazione che ritengo essenziali nella crescita di ogni persona”. Altro che bad boy. Giosuè ci conquista con la sua semplicità e con quello spirito leggero e positivo. Lui che viene da Milano e si trova a passeggiare a pochi passi dal porto di Trieste. “La città mi piace molto. E poi qui c’è il mare”. Un attimo di poesia, prima di pensare a come segnare il prossimo gol.
Dobbiamo attendere gli esiti di Torino – Napoli e Lazio – Milan, due partite che possono dire molto dei destini Champions e salvezza. Tuttavia il campionato ha preso una direzione ben precisa. In vetta, l’Inter di Matteo Darmian sfreccia verso il traguardo. L’acquisto meno sponsorizzato dai media (ma fortemente voluto dall’ex commissario tecnico della Nazionale Conte) si prende il suo momento di gloria. E al minuto 76, proprio come contro il Cagliari, risolve una partita difficile, ben giocata dal Verona di Juric.
E su questo nome dobbiamo soffermarci. Il campionato dell’Hellas è di tutto rispetto. Davanti ci sono le big e un Sassuolo che ha negli undici maggiore qualità (e qualche risorsa in più in termini di budget per il mercato). L’ex metronomo del Genoa ha tutto per diventare un allenatore di successo. La continuità nelle prestazioni e nei risultati (nelle ultime gare avrebbe meritato molto di più) sono la chiave per accedere al prossimo livello. Tornando all’Inter, la squadra lotta ed è compatta, a cinque gare dal termine conserva il margine sulle inseguitrici e vede l’obiettivo. Le proiezioni dicono che l’Inter 2020/21 raccoglierà più punti rispetto alla passata stagione, quando arrivò seconda a un punto dalla Juventus di Sarri.
La squadra guidata da Andrea Pirlo impatta contro una Fiorentina spinta da un popolo che ha vissuto una stagione di passione. Da Prandelli a Iachini, petto in fuori e l’orgoglio di aver fermato per ben due volte la squadra campione d’Italia, addirittura sconfitta lo scorso 22 dicembre. Se la perla di Morata è difficile da dimenticare, l’assenza ingiustificata di Cristiano Ronaldo fa rumore. Tra i bianconeri pesa l’assenza dell’uomo migliore, Federico Chiesa, ex stella viola. Sono quattro le gare senza gol di CR7 e le nubi attorno al suo futuro e a quello della Juventus si addensano sempre di più.
La prossima Champions League è a rischio. Un passo falso che avrebbe conseguenze importanti, decisive per le scelte del club. Dall’esonero di Maurizio Sarri, considerato da molti il male assoluto, alle parole di Pirlo (“Non sono contento dell’annata e non lo è nemmeno la società”) la cronistoria di un momento buio che consegna il titolo alla rivale di sempre, l’Inter dell’ex Antonio Conte. Sarebbe riduttivo attribuire tutti i meriti a Marotta e al tecnico che insegnò a Bonucci e compagni cosa significa dominare in Italia. La verità è che i cicli finiscono e quello bianconero sta per volgere al termine. L’errore più grande sarebbe quello di progettare il futuro con CR7 al centro del progetto.
Matteo Darmian, simbolo dell’Inter operaia che lotta, fatica e gioisce a pochi minuti dal termine della partita. Cristiano Ronaldo sembra aver perso quel feeling con il gol e con l’ambiente, trovandosi nella condizione di rincorrere e non più di dominare. Una posizione scomoda. “Stiamo spodestando un regno”, afferma con orgoglio Antonio Conte, proprio l’ex bandiera bianconera che, attraverso il lavoro e i sacrifici, sta portando la nave in porto dopo le vittorie con Juventus e Chelsea.
Andrea Pirlo si guarda intorno e vede una squadra che sembra aver perso quella voglia di lottare su ogni pallone: a questo punto si può già pensare ad una rivoluzione. La palla passa ad un Andrea Agnelli ridimensionato dalla questione Super Lega, ma ancora responsabile e simbolo di questo passaggio a vuoto. Possibile protagonista di una rinascita prima di tutto sportiva e poi societaria. Resta una Coppa Italia da conquistare, anche se di fronte ci sarà un’Atalanta in grande forma, che vola sulle ali dell’entusiasmo. Gli uomini di Gasperini sognano un secondo posto finale che avrebbe il sapore dello scudetto. Quel tricolore pronto ad essere cucito sulle maglie nerazzurre della squadra della città di Milano.
Un altro importante appuntamento con “Nuove frontiere e nuovi obiettivi”, il ciclo di incontri organizzato da Claudio Gori e dalla sua Rete dei Mister. Quella di lunedì scorso non è stata una serata come le altre, in primis perché si è parlato di un progetto unico nel panorama calcistico italiano ed internazionale, Inter Campus.
I volti degli ospiti e le loro storie. Stefano Capellini, Project Manager di Inter Campus; Gabriele Raspelli, allenatore di Inter Campus da oltre 15 anni; Davide Lubes, allenatore di Inter Campus da 6 anni. Un grande sogno in comune e una sana voglia di riscrivere alcune pagine della propria vita.
La serata parte con un video davvero emozionante. Tre minuti durante i quali ci è concesso di viaggiare in giro per il mondo, calcare i campi polverosi di alcune delle realtà più difficili del pianeta. Là dove fare calcio e vivere una passione in serenità e in compagnia è un diritto da acquisire. Una missione, una vocazione e grande forza di volontà sono quegli ingredienti necessari per partire. Il sostegno dell’FC Inter Milano e della famiglia Moratti i punti di riferimento per non perdersi come i marinai quando il mare è in tempesta.
Inter Campus opera dal 1997 per il diritto al gioco, attraverso programmi di cooperazione flessibili e a lungo termine in 30 Paesi nel mondo. E allora ci si chiede se questo modello possa essere applicato anche al nostro territorio, quello stivale così ricco di diversità e contraddizioni.
Il gioco del calcio come strumento educativo, per la crescita e lo sviluppo della personalità di ragazzi e ragazze che ogni giorno affrontano delle difficoltà, semplicemente per essere nati in una parte del mondo svantaggiata o dimenticata dal fato. Ecco che gli uomini e le idee dei tecnici e degli organizzatori di questo splendido progetto trovano linfa vitale, un terreno fertile per trasmettere quei valori validi nel calcio come nella vita.
Identità e senso di appartenenza, capacità di adattamento in differenti contesti sociali, un solo linguaggio. Il pallone, un sorriso e il gioco al centro di tutto. Inter Campus garantisce soprattutto percorsi di educazione e formazione, dispensando generosamente professionalità e sensibilità dove serve. Un progetto integrato nelle comunità, attento alle pari opportunità, all’equità di genere e contro ogni forma di discriminazione o disuguaglianza.
“Io ho il diritto di giocare”. Lo dice un bambino con indosso la maglia nerazzurra al termine di questo emozionante spot. Un messaggio valido per tutti, che ci riporta alla terra, alle nostre origini e a quella primordiale voglia di condividere qualcosa di speciale oltre che genuino. Il calcio come linguaggio universale. Lo sport come un percorso lungo il quale camminare o correre, ma sempre insieme.
I bambini e le bambine (dai 6 ai 13 anni) sono i veri protagonisti. “Un progetto per le generazioni future” sottolinea Stefano Capellini, convinto che certi valori, come quello dell’educazione, uniti a uno spirito profondamente umano, possano fare la differenza.
Il primo Inter Campus nasce in Brasile, nella zona di Recife e coincide con la presenza di un certo Ronaldo all’Inter. I colori nerazzurri divengono presto molto popolari, così come si distinguono i primi attori presenti sul posto. Al servizio delle necessità locali (come il rischio legato all’abbandono scolastico), con un’idea in testa, partita dal presidente Moratti. Come può il calcio fare la propria parte? Come possiamo essere utili gli uni agli altri, consapevoli che ognuno di noi può affrontare delle difficoltà?
Si tratta di una sorte di “ricatto etico”: un pallone in cambio di impegno a scuola e nella vita di tutti i giorni. Un patto, un gemellaggio, una mano tesa in cambio di poco o niente. Persino le Nazioni Unite partecipano al progetto e ascoltano le voci che fuoriescono dalle favelas o dai villaggi. Nel 2012 Inter Campus è stato riconosciuto come efficace strumento per lo Sviluppo e la Pace. La strada era stata già tracciata, da quel momento in poi nuove motivazioni ed entusiasmo avrebbero aumentato i giri della passione.
Scendono in campo lo Sport e i diritti umani. L’obiettivo è quello di creare un ponte tra questi due pilastri, dal diritto al gioco al diritto alla salute, fino alla libertà. Traguardi che assomigliano a dei gol da segnare dopo una grande azione corale, all’interno della quale ogni giocatore fa la sua parte.
Per quanto riguarda gli aspetti legati alla metodologia, la ricetta è semplice, potremmo dire universale. L’importanza di giocare e il principio “allenare educando”, seguendo il racconto di Davide Lubes, ha un focus, il gioco, all’interno delle diverse aree della personalità di ogni bambino.
L’obiettivo primario dev’essere quello della crescita della personalità del bambino, che attraverso determinati comportamenti prende consapevolezza delle sue abilità e capacità. Gabriele Raspelli ha fatto suoi alcuni insegnamenti di questo viaggio. “Ricordo una frase scritta su un muro di una scuola in Cina: “Prima cresco un uomo, dopo cresco un giocatore””. I valori dello sport spesso coincidono con quelli della vita. Grazie a Inter Campus ci riscopriamo tutti un po’ più umani, ancora bambini dentro ed entusiasti nel veder correre delle vite dietro a un pallone.
Ricardo intervistato da Riccardo. Una “Chat oltreoceano con il Blog di Riccardo Amato”. Così recita il promemoria appena arrivato via e – mail. Ricardo Ritossa da San Paolo (Brasile) ci racconta il calcio brasiliano. Quel circo in cui divertimento, allegria e passione danzano all’unisono. Un luogo immaginario dove nascono i campioni di domani.
Il calcio sudamericano che ispira, un mondo che racchiude grandi occasioni ed è fonte di riscatto per alcuni tra i più talentuosi calciatori del pianeta. Tra le finte di Neymar e le aspettative targate Qatar 2022, un viaggio tra presente e futuro, senza mai dimenticare le nostre origini, le prime volte, le vittorie e i sogni di gloria.
Buonasera Ricardo. Come nasce la tua passione per il calcio?
“In famiglia c’era particolare interesse, soprattutto da parte di papà per il Palmeiras, “la squadra degli italiani in Brasile”. Io sentivo gli sfottò e questa passione è stata inevitabilmente trasmessa anche a me. Quando ero piccolo andavano in scena i mondiali del 70 e iniziavo a sentire dell’importanza dei campionati brasiliani e del calcio in Sudamerica”.
Che calcio era e qual è stata l’evoluzione del futbol?
“È cambiato tutto dai tempi di Pelè o Eusebio. Contavano molto il fisico e forse il livello dei giocatori era meno tecnico. Tuttavia si prestava meno attenzione alla strategia a favore del talento, delle individualità. Dal mio punto di vista il calcio di oggi è migliorato ed è più interessante per la presenza di tattica, intensità e competitività”.
Si può chiedere a un brasiliano chi sia stato il calciatore più forte di tutti i tempi?
“Ti riferisci a Pelè o a Maradona? Non guardo i gol o le statistiche, ma alle grandi gesta di questi campioni. Negli anni sessanta si organizzavano vere e proprie esibizioni per il Santos di Pelè. Per la prima volta una squadra di calcio girava il mondo per giocare contro le Nazionali. In quelle occasioni tanti gol di Pelè non furono contati. Ecco perché il paragone basato sulle realizzazioni diventa difficile. Ciò che è certo è che parliamo di vere e proprie superstar, il mondo è cambiato dopo aver conosciuto queste nuove stelle. Una sorta di anticipazione di quel fenomeno che oggi chiamiamo globalizzazione. Incredibile”.
Il calcio brasiliano è profondamente legato al tessuto sociale e alle famiglie di questi grandi atleti. Se pensiamo agli anni novanta e duemila mi vengono in mente Ronaldo e Kakà. Due famiglie ben diverse alle loro spalle e un grande sogno in comune.
“È vero, Kakà aveva alle sue spalle una famiglia benestante, a differenza del Fenomeno. Sono spesso i genitori nelle famiglie povere a indicare la strada del calcio ai propri figli, ed è così anche oggi. Pensare di portare a casa centomila dollari è una prospettiva allettante, una somma in grado di mantenere tutta la famiglia. Ronaldo nasce a Rio, gioca con il Cruzeiro di Belo Horizonte e poi trova la fortuna all’estero, diventando “Fenomeno” nella stagione 1997/1998, quella del Pallone d’Oro. Kakà è stato il giocatore più promettente del San Paolo per poi lasciare a bocca aperta una intera generazione con la maglia del Milan”.
Quanto è difficile comprendere le reali potenzialità di un talento brasiliano?
“Alcuni giocatori sbocciano tardi, magari a 20 anni. È il caso di Gabriel Jesus, assoluto protagonista della formazione Sub 20 del Palmeiras. Un talento che ha sempre segnato ma che si poteva definire diamante allo stato grezzo, solo in seguito lavorato dalle sapienti mani di Pep Guardiola al Manchester City. All’inizio su di lui c’era scetticismo. Si arriva però a un certo punto in cui non si riesce più a trattenere un grande giocatore. Colpa anche dell’esposizione mediatica e della promessa di una migliore qualità della vita”.
Seduti al tavolo ci sono un italiano, un inglese e un brasiliano. Spiega agli altri due perché siete voi la patria del gioco più bello del mondo.
“(Ricardo sorride) Il calcio è lo sport più popolare, coinvolge famiglie, ragazzi e negli ultimi anni anche le ragazze. Ti rispondo ripercorrendo la storia sportiva di questa Nazione. Prima dei mondiali giocati in Svezia nel 1958, formazioni come Italia, Uruguay e Germania erano superiori alla nostra per storia e tradizione. Poi ecco il successo, con il primo titolo del Brasile e un certo Pelé capace di salire sul tetto del mondo per ben altre due volte. Gli anni ’70 ci dicono qualcosa di più sulla patria del calcio, se così vogliamo chiamarla. Vincere tre mondiali non è una cosa per tutti. Il sentimento che prevale tra i brasiliani è quell’orgoglio misto a senso di appartenenza. Dal 1964 al 1979 ci furono i militari al governo e valori come unità e patriottismo si mescolarono ad alcuni principi tipici del calcio. Possiamo dire con orgoglio di essere gli unici ad aver partecipato a tutti i mondiali che sono stati organizzati. Questo (parlo a italiani e inglesi, ride di nuovo) me lo dovete concedere”.
La sensazione è che i calciatori brasiliani siano sempre allegri, è davvero così?
“Il calcio è una festa. La convivialità dei calciatori fuori dal campo è un tratto caratteristico di noi brasiliani e un grande beneficio per il gioco. È la natura del popolo brasiliano: molto cordiale, aperto, che sa scherzare e ballare. La nostra gente è semplice e vuole divertirsi. L’allegria unita a questa atmosfera di fraternità sono nel nostro dna. Ecco perché esistono poche difficoltà nello spogliatoio. I grandi giocatori sono ben accolti, viene dato loro sostegno e vengono spronati a dare il meglio. Altro che gelosia o invidia. Prima e dopo la partita si sta tutti insieme, il calcio è condivisone e allegria”.
Presentaci le più importanti formazioni che militano nel Campeonato Brasileiro di Serie A
“Il Flamengo, con i suoi 40 milioni tifosi, è oggi paragonabile a una potenza calcistica come il Bayern Monaco. La novità del nostro calcio è che ai nastri di partenza si presentano almeno altre cinque o sei squadre competitive. Se guardiamo all’Italia, il Flamengo è un po’ come la Juventus; il Corinthians (club di San Paolo) ha vissuto una lenta decadenza negli ultimi anni (dopo l’ultimo trionfo del 2017 la tifoseria è calata) e potremmo accostarlo alla Lazio. Il Palmeiras, con 15 milioni di appassionati, vale l’Inter o il Milan. In seconda battuta, ma non meno importanti, troviamo Fluminense, Atletico di Belo Horizonte e poi ancora le due squadre “gauchas” di Porto Alegre (Internacional e Gremio). Infine merita attenzione il San Paolo, ora guidato dal nuovo tecnico Crespo”.
Trovi delle analogie tra il calcio brasiliano e quello italiano? La passione per il gioco e l’eccesso di giudizi da parte dei giornalisti, ad esempio.
“L’anno scorso il campionato è stato entusiasmante, una lotta fino all’ultima giornata. Per i media è stato il massimo. Anche qui si cambiano spesso gli allenatori, parlerei quasi di una vera e propria crisi di tecnici. Capita spesso che vengano mandati via a metà stagione con la squadra ancora nel pieno della competizione. Sicuramente il peso di tifosi e stampa è avvertito sulle spalle dei giocatori. Devi essere bravo a non farti condizionare. Ad esempio, l’allenatore del Palmeiras, Abel Ferreira, ha idee vincenti e si è dimostrato umile, intelligente e moderno. A volte è importante seguire il proprio istinto e non farsi condizionare dall’esterno”.
Il calcio brasiliano e le sue stelle: chi dobbiamo tenere d’occhio in vista del prossimo calciomercato?
“Io scommetterei sui giovani di Flamengo e Palmeiras. Due formazioni già proiettate al futuro, grazie a scelte ben precise. Infatti più della metà della rosa del Palmeiras è costituita da atleti dai 18 ai 22 anni. In particolare Gabriel Menino (classe 2000) è un giocatore versatile, Gabriel Veron (classe 2002) un giocatore veloce e tecnico, Patrick De Paula (nato nel 1999) una vera e propria diga davanti alla difesa. Una stella che brilla e che conosciamo tutti è quella di Gabriel Barbosa, detto Gabigol. L’ex Inter può essere a volte un grattacapo per l’allenatore, ma i suoi gol aiutano la squadra. Tra i pali dico Hugo Souza, portiere classe ’99 del Flamengo”.
Tra un anno sarà tempo di Mondiali in Qatar. Quanto vale il Brasile e qual è l’obiettivo?
“Sicuramente abbiamo calciatori bravi, nutro qualche dubbio sull’allenatore: deve avere la capacità di scegliere i migliori in quel momento. La scelta spesso non è obiettiva, ma politica. Tite è un allenatore un po’ conservatore, poco moderno, il suo è un “gioco burocratico”. Non lo invidio. Tuttavia nel calcio non si può mai sapere come andrà a finire. Pensa che esiste un’espressione brasiliana che dice appunto “queste cose succedono solo nel calcio”. La Francia è la mia favorita. Non basta avere i giocatori migliori, serve curare l’aspetto psicologico.
In conclusione, come sarà il calcio del futuro?
“Credo che quando smetteranno Cristiano Ronaldo e Messi qualcosa cambierà. Mi piace il calcio di oggi perché oltre a tecnica, strategia e tattica c’è grande equilibrio. Tante squadre possono puntare a fare bene. Un allenatore deve essere pragmatico e un calciatore deve essere consapevole che certi treni passano una volta sola”.
Sono passate poche ore dall’annuncio della nascita della Superlega e il mondo del pallone si ritrova nel caos. Cosa ne sarà dei tradizionali campionati nazionali e soprattutto della prestigiosa Uefa Champions League? Sui social è montata la rabbia dei tifosi, rappresentati da un paladino speciale, quel Gary Neville che, senza mezzi termini, aveva criticato aspramente il mondo per il quale ha versato sudore fino a qualche anno fa.
“Un atto criminale” secondo l’ex bandiera del Manchester United, “una proposta orribile, frutto dell’avidità di alcuni club”, rincara la dose il vicepresidente della FIFA Ceferin, che in particolare si scaglia contro Andrea Agnelli, colpevole di aver omesso la verità negli ultimi colloqui intercorsi tra i due. La strada verso la sostenibilità si trasforma in un’opportunità ristretta a pochi, con logiche di business assolutamente neutrali alla disuguaglianza.
LE REAZIONI
Il mondo del calcio è spaccato. I tifosi gridano allo scandalo in maniera unanime. “Il calcio è della gente e per la gente”. Alcuni interessi sembrano prevalere sulla bellezza e la portata di un gioco che appassiona e coinvolge tutti e si nutre dei sogni e della passione di milioni di persone. I dodici club fondatori sono i reazionari di un regime che evidentemente ha mostrato tutte le sue lacune. La domanda sorge spontanea: quale sarebbe la differenza rispetto alla attuale Champions League? I ricchi sono sempre più ricchi e ai poveri restano le briciole. Niente a che vedere ad esempio con la ripartizione degli introiti da diritti tv in Premier League.
Gli scheletri nell’armadio non mancano e chi grida allo scandalo farebbe bene a ricordarsi da dove viene. Il fallimento del Financial Fair Play, così come le difficoltà nel reperire risorse per i grandi club europei (emerse anche grazie alla recente pandemia), ci confermano il momento difficile di questo sport. Il calcio che stiamo osservando non è più ufficialmente sostenibile. L’unico esempio virtuoso tra le grandi d’Europa è il Bayern Monaco, mentre le altre continuano ad accumulare debiti pur di raggiungere la futura El Dorado sportiva.
CALCIO E POLITICA
E adesso? Anche la politica è scesa in campo. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi si è schierato contro la possibilità di questa nuova via poiché non sarebbero garantiti “il merito e le funzioni sociali dello sport”. Le federazioni intanto garantiscono il corretto e regolare svolgimento (e conclusione) del campionato in corso.
E se si trattasse di una semplice mossa strategica? Non è casuale la risposta della Uefa che ha appena risposto alla provocazione presentando la nuova Champions a 36 squadre che dovrebbe partire dalla stagione 2024. Contraddizioni di un football che non sa più dove sbattere la testa, ricerca risorse, progetta sottobosco e poi distrugge tutto in men che non si dica. Così non si va da nessuna parte.
SOGNO O ILLUSIONE?
Ricorderemo questo 19 aprile 2021 come l’inizio di una nuova era o come uno di quegli episodi storici sfortunati che hanno fatto tanto rumore per poi non cambiare nulla? I silenzi delle società hanno finalmente una spiegazione. Ciò che è certo è che la maggioranza disdegna questa soluzione e i tifosi fuori dallo stadio sono pronti a gridare più forte di prima. La gente rivuole quel calcio che le appartiene, quel sogno che rischia di trasformarsi in illusione.
Cosa ne sarà del calcio del futuro? Si tratterà semplicemente di un gioco al rialzo, un tutto contro tutti o ci sarà ancora spazio per le favole? L’imprevedibilità del football è ciò che rende attraente questo sport. Come Davide contro Golia, come il Leicester campione d’Inghilterra o il Porto campione d’Europa. L’augurio è che anche questo mondo ritrovi un po’ di coerenza e rifletta sul suo percorso per non commettere errori imperdonabili. Siamo ancora in tempo per fermarci e tornare indietro.